Lettere da una bambola: l’umanità segreta di Kafka

Pubblicato il 27 ottobre 2025 alle ore 08:32

Partiamo da un presupposto: a scuola non ho studiato Kafka. O meglio: nel manuale di letteratura c’era un paragrafetto esile, infilato in una delle ultime sezioni dell’antologia, e quello fu tutto. È stato solo dopo, a distanza di anni, che ho recuperato la conoscenza di questo autore straordinario. Finite le superiori, ero curiosa di capire cosa significasse davvero il termine “kafkiano”, che all’epoca si usava con tale frequenza da sembrare qualsi una moda. Da allora ho letto La metamorfosi e Il processo (mentre Lettera al padre e Il castello mi chiamano con trepidazione dalla libreria) e da questo primo incontro con Kafka ho capito due cose:  

1) Kafka merita ben più di qualche riga nelle nostre antologie 

2) Molti di quelli che usano la parola “kafkiano” non hanno mai letto nemmeno una pagina di Kafka. 

 

Ma non parliamo di me, parliamo di Franz Kafka. Alcuni di voi lo conosceranno, altri forse no, quindi lasciate che ve lo presenti. 

Kafka nasce a Praga nel 1883, in una famiglia ebrea di lingua tedesca e cresce in bilico tra culture e confini. All’università si iscrive a chimica, poi passa a germanistica, poi approda a giurisprudenza — perché sì, anche nel primo Novecento c’erano gli studenti che vagano da una facoltà all’altra sperando in un’illuminazione. Dopo la laurea lavora in un’agenzia assicurativa: un impiego sicuro e stabile, che oggi farebbe gola a molti lavoratori precari. Per Kafka, però, quella era una gabbia. Nel 1915 evita il fronte proprio grazie a quel ruolo, ma due anni dopo tenta comunque di arruolarsi: la tubercolosi glielo impedisce, e sarà proprio quella malattia a portarlo via nel 1924, a soli quarant’anni.

Kafka è un uomo fatto di esitazioni e contrasti: vuole scrivere ma lavora, ama ma si ritrae. È disciplinato, sensibile, segnato da un padre ingombrante e da un’identità culturale frammentata. La scrittura, per lui, è una cosa seria, una necessità a tratti mistica, come una preghiera. Eppure, nel pieno di questo labirinto interiore, Kafka trova anche momenti di ironia, leggerezza, dolcezza. Come quella volta, a Berlino, in cui una bambina perse la sua bambola…

Ed è proprio questa la storia che voglio raccontarvi.

 

La storia della bambola di Kafka è uno di quegli episodi minuscoli e marginali che riescono a spalancare una finestra immensa sul cuore di una persona. Molti si chiedono se sia un fatto vero o se sia solo una leggenda nata da un ricordo orale, ma poco importa. Ciò che conta è che questa storia ci mostra la sfaccettatura più bella — e forse la meno “kafkiana” — di Kafka: quella puramente umana. 

 

Siamo nel 1923, a Berlino, nel tranquillo quartiere borghese di Steglitz. Kafka è molto malato (morirà l’anno successivo) e vive con la compagna Dora Diamant gli ultimi mesi della sua vita. 

Un giorno, durante una passeggiata nel parco con Dora, Kafka nota una bambina che piange disperata per aver perso la sua bambola. Kafka non si limita a consolarla con frasi di circostanza o un buffetto sulla guancia. Fa qualcosa di diverso, qualcosa di più. Le dice che la bambola non è scomparsa, ma che è partita per un viaggio e che…gli ha scritto una lettera. Il giorno dopo, Kafka si presenta nello stesso parco con una lettera scritta di suo pungo, firmata dalla bambola. Secondo il racconto di Dora Diamant e del biografo Klaus Wagenbach, quella fu solo la prima di una lunga corrispondenza immaginaria: la bambola scriveva alla bambina raccontando i suoi viaggi, le avventure vissute e le persone che l’avevano cambiata. Non sappiamo quante lettere Kafka abbia scritto, nessuna è stata ritrovata, ma si racconta che nell’ultima, la bambola scrivesse alla bimba di aver conosciuto una persona speciale, di essersi innamorata, e di non poter più tornare.

 

Non piangere. Sono felice della mia nuova vita. Ma penserò sempre a te” 

 

Kafka non sostituisce la bambola, non nega la perdita. La trasforma in una narrazione, e in questo modo aiuta la bambina a lasciarla andare. Dora Diamant, raccontò in seguito che quello di Kafka fu un gesto totalmente spontaneo. L’autore era debolissimo, ma spendeva le sue poche forze per scrivere lettere a una bambina sconosciuta, solo per alleviarle un dolore. È un gesto minuscolo, ma che è sufficiente a riscrivere l’immagine pubblica dello scrittore: un uomo che pur sentendosi estraneo al mondo, ha saputo prendersene cura con una delicatezza rara. 

 

Martina 

 

E tu, cosa ne pensi di Franz Kafka? Quale opera dell’autore ti ha affascinato di più? 

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