Personalmente, devo molto a Luigi Pirandello. In terza superiore ero stata colpita da un grave blocco del lettore, tanto che mi ero convinta che non sarei più stata capace di iniziare e terminare un libro per il resto della mia vita (sì, sono drammatica, lo so). Poi è arrivato lui, Il fu Mattia Pascal, in sella ad un cavallo bianco, capofila della lista dei libri da leggere per le vacanze. Da lì è cambiato tutto, non ho più smesso di leggere e soprattutto non ho smesso di leggere le sue opere (anche se ancora qualcosa mi manca). Eppure, molti storceranno il naso a sentirlo nominare. Sono certa che ricorderete l’interminabile biografia riportata sul manuale di letteratura italiana, forse una delle più lunghe dato che “non gli era bastato scrivere novelle, saggi e romanzi: doveva pure darsi al teatro!”. Ebbene sì, pure la lista dei suoi scritti somigliava molto a quella che stila la nonna per il pranzo di Pasqua, e nessuno aveva la minima intenzione di impararli a memoria. Quella di Pirandello fu una vita costellata di successi, fino al più grande riconoscimento per uno scrittore: il Nobel per la letteratura nel 1934 (che tra parentesi, non poté neanche ritirare di persona per motivi di salute). Insomma, ecco come ce lo presentavano alle superiori: un gigante della letteratura italiana, uno di quelli a cui non saresti degno neanche di lucidare le scarpe. Non c’è ritratto meno veritiero di questo, e ogni volta che sento parlare di questo autore in simili termini me ne dispiaccio profondamente.
Oggi voglio sfatare un mito, letteralmente, e per farlo vi parlerò di un semplice aneddoto, uno che sicuramente non avrete letto sulle pagine lucide delle vostre antologie. Vi racconterò del suo grande insuccesso: Sei personaggi in cerca d’autore. Ebbene sì, la prima di Sei personaggi in cerca d’autore è ricordata dalle critiche del tempo come un vero flop. Poi ovviamente è diventato un pilastro della letteratura teatrale, vi sareste aspettati qualcosa di diverso dal caro e vecchio Luigi? Io proprio no.
Gli anni tra 1920 e 1930 portarono ad una radicale trasformazione del teatro pirandelliano, che ebbe come risultato la trilogia del “teatro nel teatro”. Questa nuova drammaturgia si basava sull’uso del teatro come strumento per indagare se stesso, smascherando le illusioni della realtà e mettendo in discussione il confine tra vita e rappresentazione, verità e finzione, personaggio e attore. Anche se inizialmente la critica non accolse a braccia aperte simili innovazioni, quella operata da Pirandello costituì la svolta che avrebbe anticipato il teatro contemporaneo. Sei personaggi in cerca d’autore è forse l’esempio più eminente di questo nuovo teatro. La commedia racconta la storia di sei figure incompiute, abbandonate dal loro autore, che irrompono durante le prove di uno spettacolo chiedendo al Capocomico di raccontare il loro dramma. Gli attori cercano di interpretarlo, ma i personaggi rivendicano la loro “verità”, generando un conflitto tra rappresentazione e realtà. Ne nasce una riflessione profonda sull’identità, sull’illusione e sul ruolo stesso del teatro. Un’idea geniale, no? Eppure il pubblico del tempo non la prese esattamente così.
La sera del 9 maggio 1921, al Teatro Valle di Roma, andò in scena la prima rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore e fu un mezzo disastro. Il pubblico si divise subito tra curiosi entusiasti e spettatori scandalizzati: c’erano signore che urlavano “Manicomio!” dalle poltrone rosse, giovani incravattati che lanciavano monetine (mica pomodori!) e Pirandello che cercava, con la figlia al braccio, di guadagnare l’uscita senza essere travolto. Non ci riuscì. Dovette sgattaiolare fuori da un’uscita secondaria e fuggire in taxi per evitare la folla inferocita. Quella prima, tra fischi, scherni e aggressioni verbali, fu un vero e proprio “burrascoso battesimo” per un’opera destinata a fare la storia del teatro. Anche la critica fu fredda, se non apertamente ostile. Adriano Tilgher, ad esempio, lodò la regia ma definì il testo riuscito solo per un terzo, criticando il caos tra realtà e finzione. Arnaldo Frateili parlò di un’opera “insolita” e difficile da comprendere, mentre Fausto Maria Martini descrisse un pubblico sconcertato che si accapigliava per le strade come a un comizio elettorale. Altri, come Mancuso e Tomaso Smith, reagirono con una certa irritazione, come se Pirandello avesse fatto loro perdere tempo. Insomma: applausi pochi, perplessità tante.
Per fortuna, Pirandello non era tipo da scoraggiarsi. Ritoccò il testo, aggiunse una prefazione dall’intento chiarificatore e, soprattutto, trovò chi sapeva valorizzare la sua visione. Nel 1923, il regista Georges Pitoëff mise in scena lo spettacolo a Parigi in modo rivoluzionario: fece arrivare i personaggi in scena con un montacarichi, come creature venute da un’altra dimensione. A quel punto, tutto cambiò. Nel 1925 Sei personaggi tornò in Italia in una nuova versione e ottenne finalmente il successo che meritava. Come disse Vincenzo Cardarelli, era una “strana e ricca commedia”, e proprio per questo destinata a durare.
Morale della favola: quel “Manicomio!” di Sei personaggi in cerca di autore alla fine è diventato un grande classico. Eppure, questo non è né il primo né l’unico caso, né in letteratura, né in altri campi. Pensiamo ad esempio alla ganache al cioccolato — la gustosissima farcitura che troviamo in moltissime ricette — nata dall’errore di un pasticcere maldestro del XIX secolo (lo stesso termine ganache in francese significa “imbecille”). Eppure oggi è una delle basi dell’arte della pasticceria. Questa parabola letteraria e culinaria ci ricorda che spesso è proprio da quelli che vengono considerati errori che nascono le cose migliori (e più dolci).
Martina
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