Ci vediamo per un caffè, Gregor?

Pubblicato il 3 novembre 2025 alle ore 14:02

Io e Gregor Samsa ci eravamo dati appuntamento alle 17:00 in un piccolo bar che faceva angolo. Era in ritardo di ben dodici minuti, così decisi di attenderlo all’interno. Scelsi un piccolo tavolino rotondo, vicino alla grande vetrata che dava sulla strada, e per ingannare l’attesa mi misi ad osservare i passanti che camminavano sul marciapiede, come una processione distratta, ignara di essere spiata. Passò una moltitudine di uomini in completo scuro — probabilmente appena usciti da lavoro — tutti con lo stesso passo flemmatico, le facce pallide e scavate dalla stanchezza. Saranno stati una quindicina, e tra loro spiccava un individuo vestito in modo assolutamente insolito: una camicia arancione a fiori gialli, bermuda verdi, espadrillas dalla suola consunta e un paio di occhiali da sole troppo piccoli per il suo volto. I capelli erano abbandonati ad uno stato selvaggio e coronavano una fronte bruciata dal sole. Immaginate la mia sorpresa quando lo vidi entrare nel bar e sedersi davanti a me con aria disinvolta, esordendo con un sorriso aperto 

“Scusami per il ritardo Martina, ma il mio aereo è partito in ritardo da Honolulu. Ho cercato di fare in fretta, ma sai com’è…con il traffico di oggigiorno non è più possibile essere puntuali ad un rendez-vous!”. 

“Gregor Samsa?” chiesi, ancora incredula

“E chi sennò!” rispose divertito dalla mia espressione “Non mi avevi detto — se non hai niente in contrario, preferirei darti del tu — che volevi fare due chiacchiere come me?”

”Certo…è che sei diverso da come ti ricordavo. Sei così cambiato dalle pagine di La metamorfosi. Perdonami se ti sembro un po’ stupita… in positivo, ovviamente” 

Gregor mi rivolse un sorriso smagliante e annuì con fierezza. Nel frattempo arrivò un ragazzo a prendere le nostre ordinazioni: io ordinai un ginseng, mentre Gregor optò per una tisana rilassante e qualche biscotto, raccomandandosi di aggiungere una bella fetta di limone nella tazza. Quando le nostre bevande arrivarono, lui mi guardò con eccitazione e disse:

“Allora, Martina… da dove vogliamo cominciare?”

Io presi il taccuino, inspirai il profumo del ginseng e iniziai la mia solita raffica di domande.

 

Come ti senti oggi, dopo tutto quello che è accaduto?

G.S.: Mi sento… stranamente leggero. Non nel corpo, ma nello spirito. È come se, dopo tutto quel silenzio, quel rifiuto, quel dolore, qualcosa dentro di me si fosse finalmente svuotato. Non provo più rabbia, né paura. Solo una sorta di quiete che non avevo mai conosciuto da vivo. È curioso pensarlo, ma forse ho imparato a respirare davvero solo dopo essere morto. Non mi affanno più per un treno da prendere, né per un padrone da accontentare. Ho smesso di contare le ore. Ora il tempo mi attraversa come l’aria: non lascia ferite, non chiede nulla.

 

Ti ricordi il momento esatto in cui ti sei svegliato trasformato?

G.S.: Ricordo ogni dettaglio. La coperta scivolava giù senza che riuscissi a trattenerla. Le mie zampe — così sottili e nervose — si muovevano da sole, incerte, estranee. La stanza mi sembrava la stessa, ma era come se tutto fosse diventato ostile. Perfino la luce filtrava diversa, più fredda. All’inizio non ho pensato alla paura. Ho pensato al lavoro, al capufficio, al treno che stavo per perdere. È assurdo, vero? L’uomo che si risveglia mostro, e la prima cosa che pensa è “sono in ritardo”. Ma forse è proprio quella la mia condanna: essere stato così abituato a obbedire da non sapere più cosa fosse la libertà, nemmeno in un corpo che di umano non aveva più nulla.

 

Cosa ti è mancato di più, da quando sei diventato insetto?

G.S.:La voce. Non poter dire le cose è peggio che non poterle fare. Cercavo di spiegarmi, di dire a mia madre che ero ancora io, che sotto quel corpo c’era ancora Gregor. Ma dalle mie labbra uscivano solo suoni orribili, rumori che facevano arretrare chi amavo. L’impotenza di non potersi raccontare è una tortura che non auguro a nessuno. Avevo ancora pensieri, ricordi, sogni — ma nessuno poteva udirli. È come morire lentamente, parola dopo parola.

 

Ti sei mai chiesto perché proprio tu? Perché questa metamorfosi?

G.S.:Sì, ogni giorno. All’inizio cercavo una causa: un sogno, una malattia, un castigo divino. Poi ho capito che forse non c’era nessuna ragione. Forse non era una punizione, ma una rivelazione. La mia trasformazione non ha cambiato ciò che ero: l’ha solo reso visibile. Io ero già un insetto nel cuore, schiacciato sotto il peso delle aspettative, prigioniero di un lavoro che mi consumava e di una famiglia che non vedeva in me un figlio, ma un portafoglio. La metamorfosi non è stata un evento: è stata la verità che ha trovato un corpo.

 

Hai provato rancore verso la tua famiglia?

G.S.: All’inizio no. Li comprendevo: chi non avrebbe paura davanti a un mostro? Ma col tempo, quando la paura si è trasformata in indifferenza, quando la mia stanza è diventata una cella, ho sentito nascere un dolore diverso, più amaro. Non era odio, ma consapevolezza. Ho capito che l’amore che avevano per me era un amore condizionato, legato al mio ruolo, alla mia utilità. Quando non ho potuto più sostenerli, non ero più parte della loro vita. Il rancore, però, non ha attecchito, mi restava solo la tristezza, una tristezza vasta e calma, come una stanza vuota.

 

E tua sorella Grete? Cosa provi per lei ora?

G.S.:Grete è stata la mia ultima illusione d’affetto. All’inizio è stata gentile, portava il cibo, parlava con me. Quei piccoli gesti mi tenevano in vita. Ma anche lei, lentamente, si è allontanata. Credo che il peso del disgusto e della vergogna fosse troppo grande. Non posso biasimarla. Il mondo non insegna a guardare oltre le apparenze, insegna a distogliere lo sguardo. Eppure, anche ora, nel mio ricordo, la vedo ancora con quella tazza in mano, esitante sulla soglia. È un’immagine dolce e crudele insieme. L’amore, a volte, non basta a restare umani.

 

Se potessi tornare indietro, cambieresti qualcosa nella tua vita “umana”?

G.S.:Forse sì. Forse avrei avuto il coraggio di dire no. Di non diventare ciò che gli altri si aspettavano. Ho passato la vita a lavorare per una famiglia che mi amava solo attraverso il denaro che portavo. Mi sono lasciato ridurre a un ingranaggio, e quando l’ingranaggio si è rotto, sono stato gettato via. Se potessi tornare indietro, sceglierei di vivere per me, anche solo per un giorno. Forse non sarei diventato un insetto, ma un uomo intero.

 

Hai mai provato nostalgia per la tua vita precedente?

G.S.: Sì, ma non per la vita in sé. Mi mancavano i gesti semplici: il profumo del caffè al mattino, il rumore del giornale che si apre, la luce che entra obliqua attraverso le tende. Mi mancavano le cose che non avevo mai notato finché non le ho perse. Non mi mancava il lavoro, né il padrone, né i debiti. Mi mancava la sensazione di appartenere al mondo, anche solo per un istante. Da insetto, il mondo è un luogo immenso e ostile.

 

Oggi molti di noi potrebbero definirsi dei “Gregor Samsa”: sempre troppo di corsa per accontentare gli altri, per gestire un lavoro che ci sommerge e che in fondo, forse, non ci piace neanche. Cosa diresti a queste persone che si sono addormentate durante questa cieca corsa, dimenticandosi di vivere per sé stessi?

G.S.: Direi di fermarsi, anche solo per un istante. Di guardarsi le mani, di respirare, di chiedersi: “per chi sto correndo?”. La mia tragedia non è stata la metamorfosi, ma il non essermi mai accorto di essere già intrappolato molto prima di svegliarmi nel mio nuovo corpo. Ero un uomo che confondeva il sacrificio con l’amore, l’obbedienza con la virtù. Ogni giorno mi spezzavo in due per un dovere che non mi apparteneva, e quando non ho potuto più essere utile, sono diventato invisibile.

Voi che correte — non aspettate di trasformarvi per capire chi siete. La vita non è una serie di scadenze, né un debito da estinguere. È un respiro, un istante di consapevolezza. Abbiate il coraggio di dispiacere a qualcuno, di rallentare, di scegliere per voi. Nessuno vi restituirà il tempo che sacrificate in nome della paura o del consenso. Io sono diventato un insetto per smettere di fingere. Voi potete restare umani, ma dovete imparare a dirvi “basta” prima che sia il corpo — o la mente — a farlo per voi.

Non è l’ufficio, né la famiglia, né il dovere a chiedervi tanto: siete voi a concederglielo. E vi assicuro, da chi ha perso tutto, che non c’è vergogna nel fermarsi. 

 

“Perfetto! Direi che ho tutto quello che mi serve. Ti ringrazio, Gregor, per avermi concesso un po’ del tuo prezioso tempo…” 

Lui sorrise appena, sollevando la tazza ormai quasi vuota.

“Oh, non preoccuparti, ho tutto il tempo del mondo. È stato un piacere.”

Prese l’ultima sorsata della sua tisana, poi si alzò con calma, mi salutò con un cenno cortese e uscì dal locale, facendo trillare il piccolo campanello sopra la porta. Lo seguii con lo sguardo attraverso la vetrata: si allontanava lungo il marciapiede a passi piccoli ma rapidi, leggeri come un fruscio. E per un istante — forse solo un gioco della luce — mi parve che camminasse su minuscole zampette da insetto.

 

Martina

E tu, cosa ne pensi di Gregor Samsa? Quali altri messaggi trasmette, secondo il tuo parere, La metamorfosi di Kafka? 

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